F. DOSTOEVSKIJ

MEMORIE DAL SOTTOSUOLO


1.

"Sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole."

"Non ho mai potuto diventare cattivo. In ogni momento riconoscevo in me molti, moltissimi elementi quanto mai in contrasto con ciò. Sapevo che fermentavano in me, questi elementi contrastanti. Sapevo che per tutta la vita avevano fermentato in me e che cercavano di uscire all'esterno, ma io non lasciavo, non lasciavo, apposta non lasciavo che si sprigionassero. Mi torturavano fino a farmi vergognare; mi conducevano fino alle convulsioni e alla fine mi sono venuti in odio, come mi sono venuti in odio!"

"Io non posso essere... buono!"

Queste tre citazioni esprimono il singolare e drammatico modo di essere del personaggio delle Memorie, che, ricostruendo le vicissitudini della sua esperienza, scava dentro di sé nella vana ricerca di dare un senso alle contraddizioni che la sottendono e la caratterizzano. Le conclusioni filosofiche cui egli giunge, esposte nella prima parte del racconto, sono di un amaro pessimismo. Nel mondo si danno solo due categorie: uomini d'azione, normali in quanto si adattano alle circostanze dell'esistenza, senza la pretesa di abbattere i muri di pietra delle leggi di natura  e del senso comune, stupidi, dunque, ma socialmente integrati, e uomini di pensiero, la cui coscienza ipertrofica lavora di continuo per negare e trascendere quelle circostanze con l'effetto di destinarli a dare pateticamente a testa contro quei muri.

Il narratore appartiene a quest'ultima categoria: tanto egli disprezza, invidiandoli, gli esseri normali, quanto disprezza se stesso. L'ininterrotto lavorio della coscienza, infatti, non ha prodotto che una totale sterilità: "Non solo cattivo, ma proprio nulla sono riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né furfante, né onesto, né eroe, né insetto."

Egli è solo un topo, trincerato nel suo fetido sottosuolo, che nutre vanamente invidia, rancore e disprezzo per tutto il mondo, ma è lucidamente consapevole del fatto che il suo contrapporsi ad esso in nome di principi sublimi ed elevati è semplicemente presunzione. Egli non è migliore degli altri, se non per il fatto di rendersi conto della sua contraddittorietà e della sua miseria, che è sotto i suoi occhi e si esprime nell'agire comportamenti degradanti e incivili, del tutto incompatibili con quei principi.

Cionondimeno, egli non può desistere dall'interrogarsi sulla propria condizione e sulla condizione umana in generale, per quanto la pretesa di giungere ad afferrarne il senso sia vana. Egli rivendica dunque il primato del pensiero sull'azione, per quanto sterile esso sia: "Molto meglio capire tutto, esser coscienti di tutto, di tutte le impossibilità e i muri di pietra, ma non rassegnarsi a nessuna di queste impossibilità e muri di pietra, se vi ripugna rassegnarvi."

Esser coscienti di tutto, secondo l'uomo del sottosuolo, significa prescindere dall'idea che l'uomo sia un essere razionale che si muove solo sulla base di un calcolo utilitaristo dei suoi interessi. Quest'idea, infatti, porta facilmente alla conclusione che, se egli veramente sapesse quali sono i suoi reali interessi, agirebbe secondo natura e diventerebbe addirittura virtuoso. Ora, "tutti questi bellissimi sistemi, tutte queste teorie che spiegano all'umanità i suoi veri, normali interessi affinché essa, tendendo necessariamente a raggiungerli, diventi subito buona e nobile, per il momento, secondo la mia opinione, sono semplici sofismi!" La realtà è che "l'uomo è ancor lungi dall'essersi abituato ad agire così come gli suggeriscono la ragione e le scienze." Né c'è da prevedere che questa abitudine potrà mai esse conseguita, perché "l'uomo, sempre e ovunque, chiunque fosse, ha amato agire così come voleva, e non come gli ordinavano la ragione e il tornaconto; infatti si può volere anche contro il proprio tornaconto, anzi talvolta decisamente si deve (questa è già una mia idea). La propria voglia, arbitraria e libera, il proprio capriccio, anche il più selvaggio, la propria fantasia, eccitata a volte fino alla follia: tutto ciò è proprio quel vantaggio supremo e tralasciato, che sfugge a qualsiasi classificazione e per colpa del quale tutti i sistemi e le teorie vanno costantemente a farsi benedire. E chi l'ha detto a tutti quei saggi che l'uomo ha bisogno di una volontà normale, virtuosa? Come hanno immaginato con tanta sicurezza che l'uomo abbia bisogno per forza di una volontà razionalmente vantaggiosa? L'uomo ha bisogno soltanto di una volontà autonoma per quanto possa costare questa autonomia e a qualsiasi conseguenza porti."

Il nodo filosofico dell'esistenza è, infatti, nella contrapposizione irriducibile tra ragione e volontà: "La ragione è una buona cosa, questo è indubbio, ma la ragione è solo ragione e soddisfa soltanto la facoltà raziocinante dell'uomo, mentre la volontà è manifestazione di tutta la vita, cioè di tutta la vita umana, sia con la ragione che con tutti i pruriti. E benché in questa manifestazione la nostra vita si riduca spesso a una porcheriola, tuttavia è vita, e non soltanto l'estrazione di una radice quadrata…  Che cosa sa la ragione? La ragione sa solo quel che ha fatto in tempo a conoscere (altro, forse, non saprà mai; anche se non è consolante, perché nasconderlo?), mentre la natura umana agisce tutta intera, con tutto ciò che vi è in essa, in modo cosciente e inconscio, e magari mente, ma vive"; "L'uomo può augurarsi di proposito, consapevolmente, anche qualcosa di dannoso, di stupido, perfino stupidissimo, e cioè per avere il diritto di augurarsi anche ciò che è stupidissimo e non essere vincolato all'obbligo di desiderare soltanto ciò che è intelligente. Infatti questa cosa stupidissima, questo capriccio, signori, in realtà può essere quel che di più vantaggioso c'è per noialtri sulla terra, soprattutto in certi casi. E in particolare può essere più vantaggioso di tutti i vantaggi perfino nel caso in cui vi porti un danno evidente e contraddica alle più sensate deduzioni della nostra ragione in materia di tornaconto, perché in ogni caso ci salvaguarda la cosa più importante e preziosa, cioè la nostra personalità e la nostra individualità." Molto spesso dunque e, anzi, il più delle volte, "la volontà è assolutamente e caparbiamente in disaccordo con la ragione."

La ragione, che è propria degli uomini d'azione, privilegia infatti "il benessere, la ricchezza, la libertà, la tranquillità, eccetera, eccetera". Essa però deve fare i conti con una volontà che si sottrae sistematicamente al suo controllo e, come un doppio che alberga nell'uomo, scombina il calcolo razionale dei vantaggi, aggiungendone un altro che "non entra in nessuna classificazione, non trova posto in nessuna lista. Io, per esempio, ho un amico... Eh, signori! Ma lui è amico anche  vostro; e del resto di chi, di chi mai non è amico! Preparandosi all'azione, questo signore vi esporrà subito, ampollosamente e chiaramente, come appunto deve agire secondo le leggi della ragione e della verità. Non basta: con emozione e trasporto vi parlerà dei veri, normali interessi umani; con sarcasmo rimprovererà i miopi sciocchi che non comprendono né il proprio tornaconto, né il vero significato della virtù; ed esattamente un quarto d'ora dopo, senza alcun pretesto improvviso, estraneo, ma proprio per qualcosa di interno, che è più forte di tutti i suoi interessi, suonerà tutt'altra musica, cioè andrà chiaramente contro ciò di cui ha parlato lui stesso: sia contro le leggi della ragione, sia contro il proprio tornaconto, be', in una parola, contro tutto."

C'è dunque nell'uomo un'irrazionalità di fondo irrimediabile, significativa solo perché essa appare animata da un'incoercibile desiderio di libertà e d'individuazione, ma, proprio per ciò, destinata ad esprimersi secondo modalità che lo rendono imprevedibile e, al limite, cattivo. Tale irrazionalità è più spiccata negli uomini di pensiero, che sono più facilmente preda di quel desiderio.

La filosofia espressa da Dostoevskij per bocca dell'uomo del sottosuolo è una filosofia romantica, avversa al razionalismo e al positivismo, che sottolinea quanto c'è nella natura umana di contraddittorio, caotico e irriducibile a qualunque formula esplicativa, e privilegia gli aspetti emozionali e inconsci rispetto a quelli coscienti, assumendo come motivazione ultima dell'agire umano la volontà desiderante di essere a qualunque costo un individuo piuttosto che la pedina di un ingranaggio.

Non v'è da sorprendersi pertanto che Dostoevskij sia stato profondamente apprezzato dall'uomo del sottosuolo per eccellenza - Nietzsche - che egli  ha quasi anticipato scrivendo: "Io, per esempio, non mi stupirò affatto, se a un tratto, di punto in bianco, in mezzo alla futura razionalità universale salterà fuori un qualche gentleman dalla fisionomia poco nobile o, per meglio dire, retrograda e beffarda, punterà le mani sui fianchi e dirà a tutti noi: «Ebbene, signori, che ne direste di dare un calcio e buttare all'aria tutta questa razionalità in un colpo solo, con l'unico scopo di mandare al diavolo tutti questi logaritmi e poter di nuovo vivere secondo la nostra stupida volontà?".

2.

Nella seconda parte, la “teoria” esposta viene confermata dalla rievocazione di alcuni episodi. Il protagonista incontra casualmente alcuni vecchi compagni, che lo hanno sempre considerato presuntuosamente intelligente ma inetto. Il confronto tra i loro status sociali conferma l’antico giudizio e riapre nel protagonista antiche ferite. Egli non accetta di essere emarginato, impone la sua presenza, non gradita, ad un banchetto, nel corso del quale sperimenta la miseria della sua condizione che gli altri sottolineano impietosamente. Ubriaco, carico di rancore e intenzionato a sfidare a duello uno di loro, li segue in un bordello, ove incontra una giovane donna che induce a provare vergogna per la sua condizione e alla quale offre il suo aiuto per redimersi. L’aspetta ansiosamente, fantasticando su di un futuro incentrato sull'amore, ma, quando essa si presenta, è sconvolto dalla vergogna della miseria materiale e morale in cui vive. Intuendo la sua sofferenza, la donna rimane con lui. Commosso, il protagonista si scioglie in lacrime, ma, trascorsa la notte, la caccia via mettendole in mano offensivamente del denaro. Perdendo quest'ultima occasione per sottrarsi alla solitudine in cui si è recintato, egli, pur di non essere buono e di non dare spazio alcuno agli affetti, si destina a vivere per sempre nel sottosuolo.

Questi episodi rappresenterebbero la prova che l'essere umano è agito spesso da motivazioni irragionevoli: perché il protagonista si espone ad un'inutile e cocente umiliazione nei confronti dei suoi ex-compagni di scuola? perché rifiuta l'amore di una donna che potrebbe alleviare la sua solitudine e il suo torvo rancore contro il mondo? Semplicemente perché egli non può seguire la ragione, essendo mosso da una volontà che lo sollecita incoercibilmente a farsi e a fare del male, ricavandone un oscuro piacere.

Nel descrivere un'esperienza singolare, che egli ritiene espressiva di un modo di essere determinato storicamente ("personaggi come lo scrittore di queste memorie non solo possono, ma addirittura debbono esistere nella nostra società, se si prendono in considerazione le circostanze generali in cui essa è venuta a formarsi. Io volevo portare davanti al pubblico, in modo più evidente del solito, uno dei caratteri del nostro recente passato. Si tratta di un rappresentante della generazione che vive tuttora"), Dostoevskij in realtà fornisce una serie di indizi che, a posteriori, vale a dire tenendo conto delle scoperte psicoanalitiche e della possibilità di affrancarle dalla teoria pulsionale, permettono d'interpretarla come un'esperienza tipologica.

L'uomo del sottosuolo è un introverso che non accetta di essere tale, ma, rifiutando di mascherarsi secondo i canoni della normalità corrente, adotta la peggiore delle difese: rinchiudersi in una corazza di cinismo che soffoca del tutto la sua sensibilità, e gli consente di disprezzare tutto e tutti, se stesso compreso..  

All'origine del dramma c'è una triste esperienza, ricorrente nella storia dei soggetti introversi: l'interazione con i coetanei, che affiora sotto forma di ricordo allorché l'uomo del sottosuolo incontra di nuovo i suoi antichi compagni: "Per tutta la sera ero stato oppresso dai ricordi degli anni di galera della mia vita scolastica, e non potevo liberarmene. Mi avevano cacciato in quella scuola dei miei lontani parenti, dai quali dipendevo e dei quali da allora non ho più avuto notizia - mi ci cacciarono già avvilito dai loro rimproveri, un orfano già meditabondo, taciturno, che si guardava intorno con aria selvatica. I compagni mi accolsero con cattive e impietose canzonature perché non somigliavo a nessuno di loro. Ma io non potevo sopportare le canzonature; non potevo familiarizzarmi con la stessa facilità con cui gli altri familiarizzavano tra loro. Presi subito a detestarli e mi asserragliai in un orgoglio pavido, mortificato e smisurato. La loro villania mi indignava. Essi ridevano cinicamente della mia faccia, della mia figura goffa; e intanto che facce stupide avevano loro stessi! Nella nostra scuola le espressioni dei visi chissà come istupidivano e degeneravano in modo particolare. Quanti bambini bellissimi arrivavano da noi. Pochi anni dopo faceva perfino ribrezzo guardarli. Già a sedici anni li osservavo con cupo stupore; già allora mi meravigliava la piccineria del loro modo di pensare, la stupidità delle loro occupazioni, dei loro giochi e discorsi. Non capivano cose così importanti, non si interessavano di argomenti così suggestivi e avvincenti, che senza volerlo cominciai a considerarli inferiori a me. Non vi ero spinto dalla vanità offesa e, per carità, non saltatemi fuori con obiezioni trite e ritrite, venute ormai alla nausea: "che io sognavo soltanto, mentre loro capivano già la vita reale". Macché, non capivano niente, nessuna vita reale, e, vi giuro, proprio questo mi indignava maggiormente in loro. Al contrario, interpretavano con madornale stupidità la realtà più evidente, che feriva gli occhi, e già allora erano abituati a inchinarsi soltanto al successo. Di tutto ciò che era giusto, ma umiliato e calpestato, essi ridevano crudelmente e ignominiosamente. Consideravano intelligenza il grado; a sedici anni già ragionavano di posticini caldi. Naturalmente molto qui derivava dalla stupidità e dal cattivo esempio che avevano costantemente circondato la loro infanzia e adolescenza. Erano viziosi fino alla mostruosità. S'intende, anche qui c'era più che altro esteriorità, ostentato cinismo; s'intende, la giovinezza e una certa freschezza trapelavano anche in loro perfino attraverso il vizio; ma in essi anche la freschezza era poco attraente e si manifestava in una certa cialtroneria. Io li odiavo terribilmente, benché, forse, fossi anche peggiore di loro. Essi mi ripagavano di ugual moneta e non nascondevano la loro repulsione per me. Ma io ormai non desideravo il loro amore; al contrario, bramavo costantemente la loro umiliazione. Proprio per evitare le loro canzonature, mi impegnai moltissimo nello studio e mi guadagnai un posto fra i primissimi. La cosa incuté loro rispetto. Inoltre, tutti cominciarono a poco a poco a capire che ormai leggevo dei libri che loro non potevano leggere, e capivo delle cose (che non rientravano nel programma del nostro corso specifico) di cui loro non avevano neppure sentito parlare. Consideravano la cosa con rozzo sarcasmo, ma moralmente si sottomettevano, tanto più che perfino gli insegnanti si erano accorti di me a questo riguardo. Le canzonature cessarono, ma rimase l'antipatia, e si stabilirono dei rapporti freddi, tesi. Verso la fine fui io a non resistere: con gli anni si sviluppava in me un bisogno di contatti umani, di amicizie. Provai ad avvicinarmi ad alcuni; ma questo avvicinamento risultava sempre innaturale e finiva con l'esaurirsi da sé. Una volta ebbi, non so come, anche un amico. Ma ero già un despota nell'animo; volevo avere il dominio incontrastato della sua anima; volevo inculcargli il disprezzo per l'ambiente circostante; pretesi da lui un'altezzosa e definitiva rottura con quell'ambiente. Lo spaventai con la mia amicizia appassionata; lo portavo fino alle lacrime, alle convulsioni; era un'anima ingenua e capace di donarsi; ma quando mi si fu donato tutto, io subito presi a odiarlo e lo respinsi da me: come se ne avessi avuto bisogno solo per riportare una vittoria su di lui, solo per sottometterlo. Ma non potevo vincere tutti; anche il mio amico non somigliava a nessuno di loro e rappresentava una rarissima eccezione."

In questa rievocazione la scoperta di una diversità radicale rispetto agli altri assume già un carattere drammatico. Come tutti i bambini introversi, l'uomo del sottosuolo ha precocemente una vita interiore già ricca, densa di emozioni, intellettualmente vivace, intuitivamente capace di apprezzare la grandezza. Inespressa e impercettibile socialmente, non è questa ricchezza che determina l'interazione con i coetanei, bensì il suo aspetto esteriore, che è quello "di un orfano già meditabondo, taciturno, che si guardava intorno con aria selvatica".  

Non capito dagli altri e dileggiato per la sua goffaggine, l'uomo del sottosuolo cade rapidamente nella trappola di reagire al disprezzo manifesto che lo investe con un orgoglio sotteso da un giudizio impietoso nei confronti degli altri. Egli si corazza nel suo sentimento di superiorità, ma il prezzo della corazza è l'isolamento, che si perpetua negli anni:

"A quel tempo avevo solo ventiquattro anni. La mia vita era già allora tetra, disordinata e solitaria fino alla selvatichezza. Non frequentavo nessuno ed evitavo perfino di parlare, e mi rintanavo sempre più nel mio cantuccio."

La precoce esperienza traumatica di contatto con il mondo prosegue anche quando egli si ritrova a lavorare come un qualunque impiegato:

"S'intende che odiavo tutti gli impiegati della nostra cancelleria, dal primo all'ultimo, e li disprezzavo tutti, ma nello stesso tempo in qualche modo li temevo. Capitava che a un tratto li giudicassi perfino superiori a me. La cosa mi succedeva di colpo, allora: ora li odiavo, ora li giudicavo superiori a me. Un uomo evoluto e perbene non può essere vanitoso senza essere illimitatamente esigente verso se stesso e senza disprezzarsi in certi momenti fino all'odio. Ma, sia che li disprezzassi, sia che li giudicassi superiori a me, dinanzi a quasi tutti quelli che incontravo abbassavo gli occhi."

L'alternanza tra un sentimento di superiorità e uno di grave inadeguatezza è un vissuto tipico degli introversi: la superiorità fa riferimento alla ricchezza del mondo interiore, che viene avvertita come incommensurabile a quella degli altri, l'inadeguatezza al comportamento pratico.

Se non sopraviene l'incontro con un'anima affine, l'isolamento diventa radicale, e l'introverso può avere la percezione di essere unico a mondo:

"Allora mi tormentava anche un'altra circostanza: appunto il fatto che nessuno somigliasse a me e io non somigliassi a nessuno. "Io sono uno, mentre loro sono tutti", pensavo e... restavo sovrappensiero."

Tale vissuto rende insostenibile l'esposizione sociale. Il ritiro dal mondo avviene precocemente, in queste circostanze, se l'individuo dispone di un retroterra familiare. L'uomo del sottosuolo è solo al mondo. Per ritirarsi, deve attendere che si dia una circostanza favorevole:

"Lavoravo per avere qualcosa da mangiare (ma unicamente per questo), e quando l'anno scorso un mio lontano parente mi lasciò seimila rubli per testamento, diedi subito le dimissioni e mi sistemai nel mio angolo."

3.

Come vive un introverso che ha deciso di chiudere i ponti con la realtà? Egli non può, di solito, mettere un lucchetto al pensiero e alla fantasia. Ma il gran lavorio della testa, che non può utilizzare, come punto su cui far leva, un progetto di vita, diventa tormentosamente sterile: "Vi giuro, signori, che essere troppo coscienti è una malattia, un'autentica, completa malattia. Per la vita quotidiana dell'uomo sarebbe più che sufficiente una comune coscienza umana, cioè una metà, un quarto della dose che tocca in sorte all'uomo evoluto del nostro sventurato diciannovesimo secolo… Sarebbe più che sufficiente, per esempio, la coscienza con cui vivono tutti i cosiddetti uomini immediati e d'azione…"

L'isolamento e la ruminazione non estinguono, a livello inconscio, il desiderio di vivere e di condividere la propria esperienza con qualcuno. Ma la corazza anestetica impedisce il fluire delle emozioni e degli affetti. In conseguenza di questo, il desiderio di vivere si esprime in forma degradata, e la degradazione avviene quasi a compensare e a negare la finezza dell'anima: "Ditemi un po': perché, come a farlo apposta, in quegli stessi, sì, proprio nei medesimi momenti in cui ero più capace di riconoscere ogni sottigliezza di "tutto ciò che è sublime ed elevato", come si diceva da noi una volta, mi capitava non già di riconoscere, ma di commettere azioni così indecenti, che... ma sì, insomma, che magari tutti commettono, ma che a me, come a farlo apposta, venivano proprio quando ero più cosciente del fatto che non andavano assolutamente commesse? Quanto più ero cosciente del bene e di tutto quel "sublime ed elevato", tanto più mi sprofondavo nel mio limo e tanto più ero capace di invischiarmene completamente. Ma l'aspetto principale era che tutto ciò non pareva casuale in me, come se in qualche modo dovesse essere così. Come se fosse la mia condizione più normale, e niente affatto una malattia o una perversione, tanto che alla fine mi passò anche la voglia di lottare contro quella perversione. Sicché finii quasi col credere (o forse ci credetti davvero) che appunto quella fosse magari la mia condizione normale. Ma sulle prime, all'inizio, quanti supplizi sopportai in quella lotta! Non credevo che ciò accadesse anche agli altri, e perciò per tutta la vita l'ho tenuto celato in me come un segreto. Mi vergognavo (anzi, forse mi vergogno anche adesso); arrivavo al punto di sentire un segreto, anormale, vile piaceruzzo nel ritornare talvolta nel mio cantuccio, in qualche obbrobriosa notte pietroburghese, e rendermi conto intensamente che ecco, anche quel giorno avevo di nuovo commesso una bassezza, che quel che era fatto era di nuovo irrimediabile, e intimamente, segretamente rodermi, rodermi per questo coi denti, tormentarmi e struggermi finché l'amarezza si trasformava in una sorta di ignominiosa, dannata dolcezza e alla fine in un ben preciso, autentico piacere! Sì, in piacere, in piacere! Insisto su questo. E ho cominciato a parlarne proprio perché vorrei tanto sapere con certezza: anche gli altri conoscono questi piaceri? Vi spiego: il piacere qui deriva appunto dalla troppo chiara coscienza della propria umiliazione; dal fatto che tu stesso senti di avere toccato il fondo; che è brutto, ma che non può essere altrimenti; che ormai non hai scampo, che non diventerai mai più un altro uomo; che se anche ti restassero ancora tempo e fede per trasformarti in qualcosa di diverso, probabilmente saresti tu a non volerti trasformare; e se poi lo volessi, non faresti comunque nulla, perché forse non c'è nulla, in realtà, in cui valga la pena di trasformarsi."

Per questa via è inevitabile che si creino, a livello inconscio, dei sensi di colpa. Essendo libero, come qualsiasi essere umano, l'introverso può tradire la sua vocazione verso una vita elevata, ma paga inesorabilmente, più degli altri, questo tradimento:

"Il primo colpevole di tutto sono sempre io e, ciò che è più increscioso, colpevole senza colpa o, per così dire, secondo le leggi di natura. Colpevole in primo luogo perché sono più intelligente di tutti quelli che mi circondano. (Mi sono sempre considerato più intelligente di tutti quelli che mi circondavano, e talvolta, lo credereste?, me ne vergognavo perfino. Per lo meno, per tutta la vita ho guardato un po' di sbieco e non ho mai potuto fissare la gente dritto negli occhi.) Infine, colpevole perché se anche in me ci fosse della magnanimità, avrei solo maggior tormento per la consapevolezza di tutta la sua inutilità."

E' il rifiuto di vivere e la volontà di incattivirsi a giustificare l'affiorare di un risentimento cupo e radicale che investe tutto il mondo. L'uomo del sottosuolo esce dal suo rifugio solo per portare avanti una sorta di guerra segreta nei confronti della società. Percorre le strade scrutando gli altri, soppesandoli, disprezzandoli, cercando l'occasione per aggredire qualcuno e riscattarsi dalla fama di essere un inetto e un codardo che gli è rimasta dentro dall'infanzia. Le fantasie di vendetta sono fervide, ma esse finiscono nel nulla. Al momento di passare all'azione, prevale la codardia:

"Osserviamo ora questo topo in azione. Supponiamo, per esempio, che anch'esso sia offeso (ed è quasi sempre offeso) e anch'esso desideri vendicarsi. Di rancore in lui, forse, se ne accumula ancor più che nell'homme de la nature et de la vérité. Il turpe, basso desideriuzzo di render male per male all'offensore gli prude dentro ancor più turpemente che nell'homme de la nature et de la vérité, perché l'homme de la nature et de la vérité, per la sua innata stupidità, considera la propria vendetta né più né meno che giustizia; mentre il topo, per via della coscienza ipertrofica, nega questa giustizia. Arriva finalmente al punto, all'atto stesso della vendetta. Il disgraziato topo, oltre alla porcheria iniziale, ha già fatto in tempo a seminare intorno a sé, sotto forma di interrogativi e di dubbi, un mucchio di altre porcherie; al primo interrogativo ha aggiunto tanti interrogativi irrisolti, che inevitabilmente attorno a lui si raduna una sorta di fatale brodaglia, di fetida melma, costituita dai suoi dubbi e turbamenti, nonché, infine, dagli sputi che gli cadono addosso da parte degli uomini immediati e d'azione, i quali lo circondano solennemente in qualità di giudici e despoti e sghignazzano di gusto di lui. S'intende, non gli resta che fare una mossa di rinuncia con la sua zampetta e poi, con un sorriso di finto disprezzo al quale lui per primo non crede, sgusciare ignominiosamente nel suo buco. Là, nel suo schifoso, fetido sottosuolo, il nostro topo offeso, percosso e deriso si immerge subito in un rancore freddo, velenoso e, soprattutto, eterno."

In realtà un introverso incattivito vive spesso nell'aspettativa di scaricare la rabbia che ha i corpo, ma questa è bloccata non già dalla codardia, bensì da una sensibilità sociale che, per quanto rimossa, continua a funzionar a livello inconscio.

L'incontro con i vecchi compagni di scuola, che ravviva le umiliazioni subite, si configura come la situazione ottimale per riscattarsi, offendere e vendicarsi. Anche in questo caso, però, la rabbia rimane del tutto impotente.

C'è una sola possibilità per radicarsi nell'habitus cinico: prendersela con qualche essere debole e inerme. E' quanto l'uomo del sottosuolo fa con la sventurata ragazza che intuisce la sua intrinseca bontà e tenerezza e, proprio per questo, deve essere umiliata e punita. Essa riesce a penetrare la corazza e a farlo piangere. Ma la corazza si ricompone rapidamente. L'uomo del sottosuolo, al quale essa si è concessa in uno slancio di amore, dandole del denaro, la restituisce al suo ruolo di prostituta.

"Io non posso essere... buono!», le grida per giustificare il suo comportamento. Di fatto lo è, ma non può concedersi di esserlo: questa è la sua condanna.

4.

In un saggio sull'introversione, che non ho ancora pubblicato, è possibile reperire gran parte delle caratteristiche dell'uomo del sottosuolo. Riporto alcune citazioni:

"Il bambino introverso è dotato di uno spiccato senso di giustizia. In conseguenza di questo, tutto ciò che, nei rapporti interpersonali viene vissuto come ingiusto, arbitrario, prepotente, prevaricante scatena una rabbia senza limiti…

Ad un'emozionalità così viva, corrisponde, in non pochi casi, un'intelligenza altrettanto viva. Com'è riservato nell'espressione delle sue emozioni, così il bambino introverso lo è anche in rapporto ai pensieri. Egli pensa sempre più di quanto appare, e si pone problemi "strani" per la sua età. A quest'aspetto è da ricondurre una tendenza alla ruminazione interiore, impregnata di razionalità non meno che di fantasia, e la vocazione spesso precoce per la lettura e i giochi solitari…

L’adolescenza è uno snodo di particolare significato nell’esperienza introversa. La dilatazione degli orizzonti coscienti, che si apre sull’infinito, e gli interrogativi che tale dilatazione comporta incrementano la tendenza alla problematizzazione di cui s'è parlato in precedenza, ed esercitano spesso un effetto di cattura psicologica. Tradizionalmente, si afferma che l'adolescente introverso è naturalmente "filosofo". La realtà è che la sua emozionalità, in conseguenza dell'allargamento all'infinito della sfera previsionale, che è un dato intrinseco ad ogni soggettività, lo pone vis-à-vis con i contenuti propri dell'ansia esistenziale: il senso della vita, del dolore, della malattia, della morte. A differenza di molti coetanei, che tendono a rimuovere questi problemi o a dare ad essi una risposta frettolosa e superficiale, l'adolescente introverso non può fare a meno di farsene carico riflessivamente. Egli, dunque, s’interroga di continuo sui perché ultimi dell’esistenza, e spesso è spinto a coltivare numerosi interessi intellettuali, anche impegnativi, al fine di trovare delle risposte…

L'ingenuità e l'innocenza (almeno apparente) dell'adolescente introverso sono spesso colte dai coetanei come una "stranezza" che rende impossibile la comunicazione… Il suo comportamento manifestamente diverso, chiuso e riservato, può facilmente apparire scostante e determinare una reazione negativa da parte del gruppo. Si realizzano in conseguenza di questo delle emarginazioni spontanee dal gruppo…

E' in questo periodo che il confronto del proprio comportamento con quello dei coetanei assume spesso un carattere "ossessivo". L'adolescente introverso si rende conto della sua diversità che diventa evidente. Il confronto concorre spesso a definire un'immagine interna che oscilla, con modalità varie di fluttuazione, tra un senso di superiorità assoluta ad un sentimento di grave inadeguatezza. Il senso di superiorità è spesso sotteso da un sottile e inespresso disprezzo nei confronti degli altri e del loro stile di vita, giudicato banale e superficiale. Esso però, data la quotidiana sperimentazione di una più o meno rilevante difficoltà di agire in maniera conforme al modello dominante estroverso, viene di solito sormontato da un vissuto d'inadeguatezza che può divenire radicale, e tradursi dunque in una persistente, e talora drammatica vergogna legata all'esposizione sociale…

Una difesa costante contro questa "persecuzione", a livello conscio e inconscio, è un disprezzo più o meno accentuato che l'introverso avverte nei confronti di esseri ai suoi occhi incomprensibili, che giunge a ritenere rozzi, superficiali, irresponsabili, pigri e colpevolmente svogliati nell’esecuzione dei loro doveri. Tale disprezzo, ovviamente, non migliora di certo l’interazione con i compagni, che a modo loro lo avvertono…

L’evoluzione dell’introverso dai quindici ai vent’anni è caratterizzata da un senso penoso di diversità che spesso è confermata impietosamente dai coetanei. Il difetto di conferme "trasversali" viene recepito più drammaticamente rispetto all'infanzia e può dare luogo o ad un'accentuazione del comportamento "adultomorfo", sotteso dalla rivendicazione orgogliosa di non avere nulla da spartire con i membri appartenenti alla propria classe d'età, o da una dolorosa, perpetua ruminazione sui limiti della propria personalità, che si configurano progressivamente come espressivi di un'inadeguatezza più o meno radicale a vivere…

In questa fase, l'oscillazione tra un sentimento di valore e di superiorità rispetto agli altri e quello opposto d'inferiorità e di inettitudine diventa massimale. Lo squilibrio emozionale proprio dell'adolescenza nell'introverso si esprime spesso sotto forma di un'alternanza perpetua di vissuti che vanno dalle stelle alle stalle e viceversa, con una maggiore ampiezza e durata però delle onde negative…

Costretto dalla sua natura a vivere, a sentire e ad agire in un modo abbastanza determinato, che evoca reazioni disparate, ma più spesso negative, e che, nel complesso, è disfunzionale, l'introverso non può fare a meno d'interrogarsi sul mondo così com'è, nell'intento di capirne le contraddizioni. La sua vita interiore è inesorabilmente ricca ma problematica. L'introverso riflette di continuo su ciò che è giusto e su ciò che è ingiusto, sul bene e sul male, sul significato della vita, soprattutto nei suoi aspetti negativi (dolore, malattia, morte). Se quest'attitudine riflessiva, potenzialmente filosofica, non trova risposta in una fede religiosa o in una visione del mondo sufficientemente articolata, che consenta di capire perché il mondo è così com'è, essa porta l'introverso a sviluppare un orientamento di fondo pessimistico e talora cupo…

Può accadere anche, però, molto raramente, che l'introverso avverta coscientemente la suggestione di un cambiamento che lo affrancherebbe dalla schiavitù di essere come gli altri desiderano che sia e di diventare insensibile, egoista e cinico quanto basta per sentirsi all'altezza di fronteggiare il mondo e di ripagarsi delle prepotenze subite. Questa suggestione talora si realizza in conseguenza di cambiamenti comportamentali che possono avvenire repentinamente o in un certo lasso di tempo.

Lo stesso ragazzo che è stato fino allora sensibile, rispettoso, scrupoloso e inappuntabile, si trasforma in un essere insensibile, egoista, indurito, ribelle e contestatario. Questa trasformazione, che esprime un rifiuto e una negazione della sensibilità, è, particolarmente se tende a persistere nel tempo, un rimedio peggiore del male…"

L'uomo del sottosuolo rientra per quasi tutti gli aspetti  nella tipologia dell'introverso che, dotato di grandi potenzialità ma ferito dalle interazioni con il mondo, cerca di cambiare pelle e di trasformarsi in un essere insensibile e cinico. Il tentativo finisce inesorabilmente con l'isolamento dal mondo, una drammatica chiusura affettiva, la degradazione del comportamento e un grumo di rabbie e di sensi di colpa che, nel corso degli anni, crescono come un tumore fino a soffocarlo.

Si tratta di una tipologia di personalità e di un tragitto d'esperienza per molti aspetti ancora attuale. Alcuni adolescenti introversi, che non sopportano e non sono in grado di riconoscere la loro diversità, e disprezzano gli altri - i normali - non meno che se stessi, imboccano la via di un cambiamento di pelle che, dotandoli di una corazza di cinismo, li mette apparentemente al riparo dalla sofferenza. Il prezzo, però, oltre che i sensi di colpa legati al tradimento nei confronti della propria vocazione ad essere, è inesorabilmente l'isolamento, la perdita di contatto empatico con la realtà e uno spreco spesso totale delle loro potenzialità.

Il racconto di Dostoevskij è straordinariamente interessante nell'illustrare gli esiti perversi di un bisogno d'individuazione che, in conseguenza della fobia della sensibilità e degli affetti, giunge ad esprimersi solo sul registro perverso dell'opposizionismo e del negativismo radicale.

Febbraio 2005